domenica 10 aprile 2016

Quando un garage muore...

Questo è un racconto. O forse no.
Non ha importanza. Decidete voi.
La giornata è grigia e piovosa, il ticchettio dell'acqua scandisce i secondi che passano. È inverno.
Il clima di ogni scena nostalgica che si rispetti.
Il protagonista scende una rampa asfaltata che porta ad un seminterrato: serrande che si affacciano su un locale ampio e buio, l'unica apertura sul davanti, proprio in fondo alla discesa.
Il protagonista fa attenzione, il suolo è scivoloso per via dell'acqua piovana e di chiazze di muschio che crescono fra crepe, le rughe di un vecchio edificio.
Fruga nella tasca del cappotto e ne estrae una chiave. Apre la prima serranda sulla destra. Prova l'interruttore sul muro: niente. Il garage resta immerso nella penombra di una fredda giornata piovosa di gennaio. Il respiro si condensa in placide nuvole di fumo.
Lì dentro non c'è più niente. Solo una catasta di legna da ardere, che rende il tutto sconosciuto e alieno. Il protagonista non ha mai posseduto un camino.
Le pareti sono vuote; solo graffi neri e buchi di chiodi a testimoniare che, una volta, laggiù qualcuno aveva stoccato i propri averi. Pattini. Sci per la settimana bianca. Portapacchi. Un vecchio bolide da corsa restaurato e ora perduto. Musicassette. Una bicicletta da corsa che non andava da nessuna parte, agganciata ai rulli, la ruota anteriore eternamente immobile, ma che poteva arrivare in qualsiasi posto del mondo o dell'universo. Una bicicletta che aveva un nome, rampollo metallico di una nobile dinastia, dotata del superpotere di un tappeto volante.
È uno spazio piccolo, questo garage. Più piccolo di una cameretta da figli privilegiati. Più piccolo di un salotto. Un monolocale. Eppure, era stato più grande di uno stadio, di una montagna, di un oceano. Il punto di partenza di mille strade, per universi senza fine. Il luogo sicuro senza pareti, lo scudo contro la cattiveria e la paura, che restavano intrappolate fuori.
L'astronave che trasmetteva musica senza sosta, da un'autoradio appoggiata su una mensola; uno stereo ricavato da avanzi di una macchina venduta. Migliore di qualsiasi impianto ad alta fedeltà che potrete mai ascoltare in vita vostra. Attrezzi in ogni dove.
Sport, fantasia, vitalità in ogni angolo. Sogni e progetti.
Avere le chiavi di quel garage significava avere le chiavi della felicità.
Un felicità piccola. A misura di bambino. Di adolescente. Di piccolo principe che se ne sta sul suo pianeta in miniatura, in compagnia della sua rosa domestica. Solo che invece di avere una rosa domestica, magari, c'era un papà supereroe. Che insegnava i principi della respirazione, della salute del sistema cardiocircolatorio, i segreti della fisica quantistica e della gravità... mentre si puliva via il grasso della motocicletta dalle mani. La moto che un giorno sarebbe stata del protagonista.
Fantasmi luminosi si sovrappongono, cercando di contrastare il buio che ora proviene dal garage spogliato di ogni briciola di magia. Ma non c'è nulla da fare.
Ormai, là sotto, non è rimasto niente. Solo la nostalgia, mista ad un opprimente odore di muffa. L'odore dell'abbandono. Della solitudine.
L'odore delle case delle persone anziane che non hanno una famiglia, arroccate in intercapedini di antiche mura medievali.
Il protagonista chiude la serranda. Meglio non vedere. Meglio non sentire.
Non ha senso vivere nel passato, se ciò che era non esiste più.
Per fortuna, ci sono sempre strade da percorrere. Nuove, misteriose, avventurose. Basta solo trovare le ruote giuste.



domenica 3 aprile 2016

Consigli per gli acquisti: la dimostrazione che da Ikea ci vanno proprio tutti

Interno notte.
Seduta allo scrittoio, unica fonte di luce una abat-jour di Ikea verde pisello, pigiama salopette fuori misura con multicolori aeroplanini, che al posto del corpo centrale hanno tubetti di tempera.
Ma parché in queste scene indosso sempre il pigiama?
Ah già: perché mi decido a scrivere solo nei weekend o nei giorni di festa, quando il garage è vuoto, il telefono è staccato e le sinapsi hanno avuto modo di smaltire il sovraccarico.
Ordunque: pigiama. Scrivania Ikea. Abat-jour Ikea. Poltrona Ikea. Potrebbero mettermi al reparto espositivo. Slogan: sei misantropo e setoloso come un cinghiale? Dai valore al tuo garage!
Nel frattempo che immaginarie frotte di acquirenti mi scorrono davanti perplesse, picchietto le dita sui tasti bidimensionali della tastiera virtuale del mio ipad, scribacchiando queste righe in un esercizio meta-blog-letterario: la fantasia genera il posto che genera il post che genera il posto della mia fantasia sintetizzato sulla meta-tastiera dell'iPad. Vabbè... lasciamo stare.
D'improvviso, la sala espositiva si rabbuia. Potrebbe essere questa pubblicità, che un genio ha ideato per la notte di Halloween.




Ma no. Niente inquietante ragazzino dello Shining di Kubick, che pedala col suo triciclo per i corridoi deserti. Questa è un'altra storia.
I clienti del colossale mobilificio svedese si diradano. Nessuno mi osserva più, né curioso né sconcerto.
Suppongo di essere rimasta sola e beatamente ignorata; quando un'ultima figura si ferma ad ammirare la mia vetrina. Anch'essa scura, quasi indistinta sullo sfondo del piano esposizioni con poche luci accese. Porta un mantello con cappuccio a coprirle testa e viso. E l'inconfondibile attrezzo contadino per mietere il grano.
Lentamente, la scenografia cambia: da Ikea si torna nel mio garage.
Guardo la Vecchia Signora, perplessa e delusa.
Io: Di già? Ma come, con tutti gli sforzi che faccio per non ingrassare e mangiare sano. Non fumo, non bevo, non uso Altre Sostanze. Che ci fai qui così presto?
La Morte: Ah no, scusa. Veramente pensavo di essere da Ikea, avevo bisogno di una poltrona da giardino. Ma devo essermi confusa. Ho scambiato la tua fantasia per il negozio.
Io: Alla faccia. Ecco perché tutti ti maledicono. Se lavori come fai shopping...
La Morte, si sposta la falce da una spalla all'altra, stizzita: C'è poco da criticare o fare gli spiritosi! Ma hai idea di che mole di lavoro ho da smaltire tutti i giorni, da che la vita è comparsa???
Io: Non sarà il caso che tu ti prenda una vacanza?
La Morte: Non posso. Non trovo mai nessuno disposto a sostituirmi.
Io, penso "eh be', a chi potrei dare torto?".
La Morte: Di'... ti andrebbe di farlo tu? Sostituirmi per po'? Così potrei andare in settimana bianca.
Io, mi schiarisco la voce: Sai, veramente, avrei trovato un lavoro... tranquillo posticino in ufficio. Stipendio fisso a fine mese, malattia, ferie e contributi...
La Morte, sospirando sconsolata: Lo immaginavo. Siete tutti uguali, voi vivi.
Io: Mica vero! Ce ne sono a frotte di noialtri e non ne troverai mai due uguali. A parte i gemelli omozigoti, ovviamente. Ma quelli non contano, hanno il DNA identico. Innanzitutto siamo divisi in uomini e donne. E poi ci sono quelli belli, quelli brutti, quelli alti, quelli bassi, quelli neri, rosa, rossi, gialli...
La Morte: Vuoi dare lezioni di biologia ed etnografia a me??
Io: Scusa... cercavo solo di difendere la mia posizione di essere vivente.
La Morte: Sarete pure tutti diversi, ma quando arrivo io, mi trattate sempre alla stessa maniera: disprezzo, circospezione, paura. Nessuno che mi accolga gentilmente.
Io: Mi spiace. Devi sentirti molto sola.
Morte, emettendo un altro sospiro tremulo: Abbastanza.
Io: Dai, quando verrai a prendermi, mi ricorderò di questo momento e sarò gentile con te. Ti offrirò un caffè o un tè. Ci mangeremo l'ultimo muffin insieme e ce ne andremo a braccetto canticchiando. Va bene? Però devi dire al tuo Principale di conservarmi in salute e con buona memoria. E di non farti passare troppo presto. O addio ai buoni propositi.
La Morte: Ecco che ci risiamo. Un'altra che vuole contrattare faccia a faccia con me.
Io, ribatto accigliata: Ma io non voglio contrattare. Anzi, sto cercando di essere cordiale!
La Morte: Sì, sì. Proprio come il tuo predecessore. Che per guadagnare altro tempo voleva farmi... morire dalle risate! Ahahahah! -- la Morte scoppia a ridere per la sua stessa battuta.
Io: C'è poco da prendermi in giro, vecchia contadina scorbutica.
La Morte: Ma no! Ti giuro che è vero! Una volta un vecchio attore fece con me una scommessa. Ogni Natale passavo a prenderlo e se lui riusciva a farmi ridere, gli regalavo un anno in più da vivere.
Io: E ci riusciva? A farti ridere, intendo.
La Morte, sposta il peso da un piede all'altro, apparentemente in imbarazzo: In un certo senso, sì... però senti, resti fra noi eh. Non ci ho fatto una bella figura con quell'incarico.
Io: Tranquilla. Tanto a chi vuoi che lo vada a raccontare? Punto primo, non mi crederebbe nessuno. Punto secondo, ma lo vedi dove vivo?! Ti sembro una persona socievole e ciarliera, io?
La Morte: In effetti... però è stato un piacere parlare con te. Adesso devo andare. Devo trovare un fuso orario in cui Ikea sia ancora aperta, o non riuscirò mai a comprare quella sedia da giardino.
Io: Ok. Buona spesa, Vecchia Signora.
La Morte: Grazie!
Io: Come si chiamava quell'attore?
La Morte: Charlie. Era un comico.
Io: Ma è una storia vera? Quella della scommessa e degli anni vinti a suon di risate?
La Morte: Non saprei. Probabilmente no. Ma è una bella storia. Se ti capitasse di trovarla in libreria, ti consiglio di leggerla. Un perdigiorno dotato di favella ed eleganza ne ha scritto un resoconto dettagliato, poetico e molto coinvolgente. E se anche non fosse mai successo... sarebbe davvero così importante?
Io: No. Immagino di no.






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